File interminabili, POS "rotto" e proteste a ogni tentativo di riforma. Il servizio taxi in Italia è un'emergenza costante. Una corporazione che da decenni blocca la modernizzazione, tra redditi dichiarati irrisori e il mercato milionario delle licenze, dove lo Stato sembra impotente.
Trovare un taxi in una grande città italiana, specialmente nelle ore di punta o durante un acquazzone, è un'impresa che rasenta l'epico. Una frustrazione quotidiana per cittadini e turisti, che si scontra con una domanda apparentemente semplice: se il servizio è insufficiente, perché non si aumentano le auto in circolazione? La risposta è un groviglio di politica, interessi economici e potere che da decenni tiene in scacco l'Italia. Una storia in cui una categoria numericamente esigua, quella dei tassisti, riesce a dettare legge a governi di ogni colore politico.
Pochi, ma potentissimi: i numeri di un'anomalia europea
luglio del 2022: cade il governo Draghi. Poche ore dopo, i tassisti festeggiano l'ennesimo successo di categoria, ottenendo lo stralcio dell'articolo 10 del ddl concorrenza che, a detta loro, avrebbe potuto creare le premesse per una liberalizzazione del settore, mettendo a rischio la loro attività professionale. In realtà, quell'articolo era estremamente generico, si parlava di modernizzare il settore anche attraverso le applicazioni, ma la categoria temeva anche solo l'idea che si aprisse qualsiasi forma di liberalizzazione come, per esempio, il famoso Uber.
Il primo dato da cui partire è la cronica carenza di vetture. Sebbene non esista un registro ufficiale nazionale, le stime del 2019 parlano di circa 23.000 taxi in tutta Italia. Un numero irrisorio se confrontato con i nostri vicini europei. L'Italia conta appena 0,51 taxi ogni mille abitanti, quasi la metà della Spagna (0,97), della Germania (0,87) o della Francia (0,66).
Questa scarsità è la vera fonte del loro potere. Ogni volta che un'amministrazione locale, da Roma a Milano, ipotizza di bandire nuove licenze – magari in vista di eventi cruciali come il Giubileo o le Olimpiadi – la reazione è immediata e feroce: scioperi selvaggi, cortei e blocchi che paralizzano le città. Proprio perché sono pochi, il loro fermo crea un danno enorme, diventando un'arma di ricatto formidabile contro la politica, che puntualmente fa marcia indietro.
Il mistero dei redditi e la guerra al POS
Un altro capitolo controverso riguarda la questione fiscale. Secondo i dati ufficiali basati sulle dichiarazioni dei redditi, un tassista in Italia guadagnerebbe in media circa 15.000 euro lordi l'anno, poco meno di 1.300 euro al mese. Cifre che scendono a 9.000 euro a Napoli e salgono a 20.000 a Milano.
Questi numeri, però, appaiono poco credibili se rapportati al costo della vita e, soprattutto, al valore delle licenze. Calcoli empirici, basati su tariffe, numero di corse e ore di lavoro, suggeriscono guadagni reali ben più alti, che potrebbero arrivare a quasi 4.000 euro netti al mese.
Questa discrepanza spiegherebbe la strenua resistenza all'uso del POS, diventato obbligatorio per legge nel 2022. Le cronache e i video sui social abbondano di testimonianze di clienti a cui viene negato il pagamento con carta, spesso con la scusa del "terminale guasto" o con la richiesta di scendere per prelevare contanti. Una pratica illegale che alimenta il sospetto di una diffusa evasione fiscale. Non tutti, va detto, si conformano. Il caso di Roberto Mantovani, il tassista noto come "Red Sox", che per trasparenza pubblicò i suoi guadagni reali (centinaia di euro al giorno), è emblematico: fu sommerso di minacce, subì atti vandalici e venne sospeso dalla sua cooperativa.
Il cuore del problema: il mercato nero delle licenze
Per capire la radice di questa opposizione a ogni cambiamento, bisogna parlare delle licenze. In Italia, una licenza per taxi non è una semplice autorizzazione, ma un vero e proprio asset patrimoniale. Il suo valore, determinato dalla sua scarsità, è astronomico: si va dai 150.000 euro di Roma e Milano fino ai 250.000 euro di Firenze.
Questo sistema ha creato un mercato parallelo e florido, spesso "in nero", dove le licenze vengono compravendute tra privati. Per un tassista, la licenza rappresenta l'investimento di una vita e, al momento della pensione, una liquidazione milionaria, esentasse se venduta senza passaggi ufficiali. È comprensibile, quindi, la difesa strenua di questo status quo: ogni nuova licenza immessa sul mercato dal Comune ne diminuirebbe il valore.
La "soluzione" del governo: un favore alla categoria?
Di fronte a questa emergenza, il governo Meloni è intervenuto a fine 2023 con il "decreto Asset". La misura permette alle grandi città di aumentare le licenze fino al 20 per cento in vista di grandi eventi. Ma a un'analisi più attenta, il provvedimento sembra più un regalo alla categoria che una vera liberalizzazione.
Ecco i punti chiave:
1. Licenze temporanee: Saranno valide al massimo per due anni.
2. Priorità ai tassisti: I primi a poter ottenere le nuove licenze (fino a due) saranno i tassisti già attivi, che potranno cederle a familiari o darle in gestione.
3. I ricavi ai tassisti: Qui sta il paradosso. L'80 per cento del ricavato dalla vendita di ogni nuova licenza andrà a un fondo per compensare gli altri tassisti. Al Comune, che gestisce il bando e subisce i disagi, resterà solo il 20 per cento. Per fare un esempio, su 1.000 nuove licenze a Roma (un affare da 150 milioni di euro), 120 milioni andrebbero ai tassisti e solo 30 al Comune.
Un modello unico al mondo. In Paesi come la Germania o l'Olanda, le licenze sono temporanee, non cedibili a terzi e restano di proprietà pubblica.
Una corporazione intoccabile
Nonostante una legge palesemente a loro favorevole, i tassisti hanno protestato anche contro il decreto Asset, nel timore che apra anche solo un piccolo spiraglio a una futura concorrenza, come quella di Uber.
Più che di una lobby, è corretto parlare di corporazione: un gruppo unito e coeso che va oltre le appartenenze politiche e agisce con un solo obiettivo: difendere il proprio privilegio economico. Una difesa che si scontra frontalmente con il diritto dei cittadini a un servizio di trasporto pubblico efficiente, trasparente e moderno. E mentre i governi passano, la lobby dei taxi resta, lasciando l'Italia ferma al palo.
Onesti e disonesti: chi paga il prezzo del protezionismo politico?
Sarebbe ingiusto, oltre che errato, dipingere un'intera categoria con le stesse tinte fosche. Tra le migliaia di tassisti italiani, la stragrande maggioranza è composta da professionisti onesti, lavoratori che ogni giorno svolgono il proprio servizio con dedizione, rispettando le regole e pagando le tasse. Sono loro le prime vittime di una narrazione tossica che li accomuna a una minoranza rumorosa e arrogante, la cui condotta infanga la reputazione di tutti.
Il vero nodo della questione, tuttavia, non risiede nel comportamento del singolo, ma in un sistema che lo incoraggia. L'attenzione mediatica sul "tassista truffatore" è la conseguenza diretta di un protezionismo anacronistico e insensato, uno scudo invalicabile che ha trasformato un servizio pubblico in un feudo privato.
Questa difesa a oltranza dello status quo non è un'esclusiva di una parte politica, ma trova sponde e silenzi complici lungo tutto l'arco costituzionale. Dalle destre, storicamente paladine della categoria in nome della difesa del lavoro italiano contro le multinazionali, fino a importanti settori del centrosinistra, intimoriti dalla capacità di mobilitazione dei tassisti e restii a scontrarsi con un blocco di voti così compatto.
Ogni tentativo di riforma, anche il più timido, viene neutralizzato da questo patto non scritto, fondato sul calcolo elettorale e sulla paura di pagare un prezzo politico. E così, mentre la politica esita, a pagare il conto sono due volte le stesse persone: i cittadini, privati di un servizio adeguato, e i tassisti onesti, prigionieri di una reputazione che non meritano e di un sistema che impedisce ogni evoluzione.