Fatturati miliardari contro canoni irrisori, la direttiva europea ignorata per decenni e una politica incapace di decidere. Viaggio nel monopolio delle concessioni balneari che ha privatizzato il mare, limitato la libera fruizione delle coste e bloccato il Paese di fronte all'Europa.
Infatti c'è una frustrazione tutta italiana che esplode ogni estate: la caccia a un fazzoletto di spiaggia libera, stretta tra file infinite di ombrelloni a pagamento. È il sintomo più evidente di un problema enorme e decennale, quello delle concessioni balneari. Un sistema che, come quello dei taxi, ha generato una delle categorie più discusse del Paese, percepita da molti cittadini come un club esclusivo che offre servizi sempre più cari a fronte di un privilegio quasi ereditario.
Ma come è possibile che un settore da quasi 34 miliardi di euro di fatturato sia governato da regole opache e anacronistiche? E perché lo Stato incassa appena 100 milioni di euro dai canoni di concessione delle sue spiagge, un bene pubblico inestimabile? La risposta è un intreccio di potere locale, debolezza politica e una resistenza corporativa che per anni ha tenuto in scacco ogni tentativo di riforma.
Un mare di cemento e ombrelloni: i numeri del monopolio
Per capire la portata del fenomeno, bastano pochi dati. Secondo il rapporto "Spiagge 2024" di Legambiente, in Italia si contano circa 12.000 stabilimenti balneari. Il loro impatto sul territorio è impressionante: in regioni come Liguria, Emilia-Romagna e Campania, quasi il 70 per cento delle coste è occupato da strutture private. Le spiagge libere, quelle accessibili a tutti gratuitamente, sono sempre più rare e spesso relegate nelle aree meno pregiate.
Questo non è solo un problema di accesso, ma anche ambientale. La "privatizzazione di fatto" del litorale aggrava fenomeni come l'erosione costiera e il consumo di suolo, erodendo un patrimonio naturale che dovrebbe appartenere a tutti.
Il "diritto di insistenza": come nasce un privilegio
Il cuore del problema risiede in un sistema di assegnazione bloccato da decenni. Invece di indire gare pubbliche trasparenti, basate sulla qualità del servizio e sulla tutela ambientale, per decenni le concessioni sono state rinnovate in automatico agli stessi gestori. Grazie al cosiddetto "diritto di insistenza", introdotto negli anni '90 e poi abrogato ma i cui effetti persistono, intere generazioni della stessa famiglia si sono succedute alla guida degli stabilimenti.
Questo ha creato un monopolio di fatto. Senza il rischio di perdere la concessione, è venuto a mancare qualsiasi incentivo a investire, innovare e migliorare i servizi. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: prezzi in costante aumento e una qualità che non sempre è all'altezza.
Un affare da 34 miliardi, allo Stato solo le briciole
Il paradosso diventa lampante quando si guardano i conti. L'Osservatorio Panorama Turismo stima per il 2025 un fatturato del settore di quasi 34 miliardi di euro. Di fronte a questa cifra colossale, l'incasso dello Stato dai canoni di concessione è irrisorio: circa 100 milioni di euro l'anno. In media, ogni concessionario paga allo Stato una cifra minima per l'uso dell'asset fondamentale che genera i suoi profitti. Una sproporzione che rappresenta un'enorme perdita per le casse pubbliche.
L'anomalia italiana: cosa fa il resto d'Europa
La situazione italiana è in palese contrasto con la direttiva europea Bolkestein del 2006, che impone la messa a gara di tutti i servizi, incluse le concessioni su suolo pubblico, per garantire la libera concorrenza. L'Italia ha passato quasi vent'anni a trovare scuse per non applicarla, difendendo un modello che nel resto d'Europa non esiste.
In Francia, il litorale è un bene pubblico inalienabile. Le concessioni durano al massimo 12 anni, vengono assegnate con gara e almeno l'80 per cento della spiaggia deve rimanere libero e sgombero a fine stagione.
In Spagna, la "Ley de Costas" definisce la spiaggia "bene di dominio pubblico" e vieta le privatizzazioni.
In Grecia e Portogallo, le concessioni si ottengono tramite aste o gare pubbliche, con criteri rigidi legati alla tutela del paesaggio e dell'ambiente.
Oltre lo stereotipo del "bagnino": chi paga il prezzo del protezionismo
Sarebbe un grave errore pensare che dietro ogni ombrellone si nasconda un approfittatore. L'universo delle concessioni è popolato in larga parte da famiglie che da generazioni investono, lavorano e custodiscono un pezzo del nostro litorale, garantendo servizi e sicurezza. Sono proprio questi imprenditori onesti le prime vittime di una reputazione rovinata da pochi e, soprattutto, di un sistema insostenibile.
Il problema, infatti, non è il singolo gestore, ma la cornice politica che lo circonda. Le mancate soluzioni sono frutto di un protezionismo scientifico e trasversale, che trova sponde sicure in tutto l'arco costituzionale. Da decenni, governi di destra e di sinistra hanno preferito rinviare, alimentando un sistema di proroghe che ha trasformato un bene pubblico in un patrimonio privato. Questa difesa non ha bandiera: è sostenuta dalle destre in nome della tutela delle imprese familiari contro le "multinazionali", ma appoggiata con altrettanto vigore da ampi settori del centrosinistra, timorosi di perdere il consenso di un blocco elettorale radicato e potente.
Questo patto politico non scritto ha creato un paradosso: lo scudo protettivo che avrebbe dovuto garantire stabilità ai concessionari li ha resi il bersaglio dell'opinione pubblica, intrappolandoli in un limbo giuridico perenne.
La svolta obbligata
Dopo anni di rinvii e richiami da Bruxelles, la pressione dell'Unione Europea e gli impegni legati al PNRR hanno costretto l'Italia a muoversi. Con il recente decreto "salva-infrazioni", il governo ha finalmente messo fine ai rinnovi automatici, stabilendo che le concessioni dovranno essere riassegnate tramite gare pubbliche entro il giugno 2027.
Le nuove concessioni avranno una durata variabile (da 5 a 20 anni) per consentire l'ammortamento degli investimenti. Tuttavia, la partita è tutt'altro che chiusa. Restano da definire i dettagli cruciali, come il calcolo degli indennizzi per i gestori uscenti. Il rischio, come spesso accade in Italia, è quello del "Gattopardo": cambiare tutto per non cambiare nulla, trovando l'ennesimo stratagemma per mantenere, di fatto, lo status quo. La vera sfida sarà garantire che le prossime gare premino davvero il merito, la sostenibilità e l'interesse pubblico, restituendo finalmente le spiagge ai cittadini.