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La “bolla buona”: cosa insegna il crollo delle dot-com sul futuro dell’Intelligenza Artificiale

 
La “bolla buona”: cosa insegna il crollo delle dot-com sul futuro dell’Intelligenza Artificiale
Luca Lippi

La storia dei mercati finanziari evidenzia un paradigma ricorrente: una nuova tecnologia innesca un'ondata di euforia, catalizzando ingenti flussi di capitale e alimentando promesse di un futuro rivoluzionario. Se alla fine degli anni '90 questo schema culminò nel crollo della bolla speculativa delle dot-com, oggi l'interrogativo si ripropone con l'avvento dell'Intelligenza Artificiale. L'IA rappresenta davvero le fondamenta del nostro progresso o è un'altra illusione finanziaria sull'orlo del collasso? Un'analisi critica del passato è indispensabile per comprendere se l'attuale corsa agli investimenti possa condurre a un simile, oneroso errore di valutazione.

La bolla delle dot-com

Per comprendere le profonde somiglianze tra la bolla delle dot-com e l'attuale euforia per l'Intelligenza Artificiale, è fondamentale rivivere la dinamica di quel crollo epocale di inizio millennio.

Siamo alla fine degli anni '90. Internet non è solo una novità, è la nuova Eldorado: una piattaforma digitale che promette di rivoluzionare il commercio e la comunicazione. Per la prima volta nella storia, un'azienda poteva spedire giocattoli, piante, la spesa o il cibo per animali direttamente a casa del cliente, spesso gratis e in tempi rapidi. Il simbolo di questa promessa fu pets.com, ma non era l'unica. In questo clima, la semplice presenza di un ".com" nel nome di un'azienda era vista come un lasciapassare per il successo. Le startup digitali spuntavano come funghi e i loro valori in borsa salivano con una velocità vertiginosa. L'indice Nasdaq, che raggruppa le principali società tecnologiche, schizzò da 1.000 a oltre 5.000 punti in meno di tre anni: un'ascesa senza precedenti.

L'entusiasmo era tale da accecare quasi tutti. Pochissimi si presero la briga di analizzare i fondamentali di queste nuove società: i bilanci, i modelli di business, i profitti reali. Dopotutto, perché farlo? Era una "nuova era", un'epoca di crescita apparentemente infinita. La logica dominante era semplice: se le azioni salgono, significa che l'investimento è buono. E così, tutti continuavano a comprare, alimentando una spirale rialzista che sembrava inarrestabile.

Ma tutta quella costruzione poggiava su fondamenta fragilissime. Bastò un piccolo intoppo per far crollare l'intero castello di carte.


Per descrivere questa situazione, la metafora più calzante è quella di una città costruita su un set cinematografico

Immaginate di arrivare in una città del West apparentemente fiorente. Vedete saloon, banche, uffici... tutto sembra solido, reale e pieno di opportunità. Talmente convinti del suo potenziale, iniziate a investire: comprate il "saloon", affittate la "banca", sicuri di possedere veri immobili in una città in piena espansione. Tutti gli altri fanno lo stesso e i prezzi di queste "proprietà" schizzano alle stelle.

Poi, un giorno, qualcuno decide di fare il giro dell'isolato e scopre la verità: non sono veri edifici. Sono solo facciate di legno e cartone, tenute in piedi da qualche trave. Dietro non c'è assolutamente nulla. Quando la notizia si diffonde, il panico è totale. Nessuno vuole più comprare il vostro "saloon", perché tutti sanno che è solo un pezzo di compensato. Il valore dell'intera città crolla a zero.

Ecco, la dinamica delle aziende dot-com senza un vero business alle spalle era proprio questa. Ma andiamo nel dettaglio.

Perché è scoppiata la bolla?

La bolla scoppiò perché era costruita su una fiducia cieca e indiscriminata: l'idea che qualsiasi azienda legata a Internet fosse destinata a un successo straordinario, a prescindere da un solido piano industriale o da profitti reali. La strategia dominante era il "Get Big Fast": crescere il più rapidamente possibile investendo capitali enormi, con la promessa che i ricavi sarebbero seguiti. Per molte di quelle startup, quella promessa non si materializzò mai.

Eppure, i segnali d'allarme erano evidenti. Molti analisti notavano come diverse società avessero bilanci disastrosi, bruciando milioni in spese senza generare vendite significative. Nonostante ciò, i prezzi delle azioni continuavano a salire, spinti da un'ignoranza collettiva e dalla cosiddetta FOMO (Fear Of Missing Out): la paura paralizzante di rimanere esclusi dalla grande occasione del secolo.

Quando, nel 2000, il mercato diede i primi segni di cedimento, la realtà colpì gli investitori con la violenza di uno schiaffo: quelle società tanto acclamate erano spesso scatole vuote, prive di piani sostenibili, utili concreti o bilanci solidi. Il panico si diffuse a macchia d'olio. L'indice Nasdaq implose, perdendo quasi l'80 per cento del suo valore in due anni e polverizzando miliardi di dollari insieme alla fiducia nel futuro digitale.

Le conseguenze: dalla recessione alle crisi future

Le ripercussioni furono devastanti. Il crollo innescò una profonda recessione economica. Innumerevoli aziende fallirono o furono assorbite da concorrenti più grandi, mentre un clima di diffusa incertezza frenava consumi e investimenti. Secondo il National Bureau of Economic Research, la recessione americana si estese dal marzo al novembre 2001. L'impatto fu aggravato dagli attentati dell'11 settembre, tanto che si parla spesso di "September 11 Recession", che colpì l'intera economia statunitense e influenzò anche gli indici non tecnologici, come lo S&P 500 e il Russell 2000.

In risposta, la Federal Reserve tagliò i tassi di interesse per ben 11 volte nel tentativo di stimolare l'economia. Tuttavia, questa politica di denaro a basso costo ebbe una conseguenza involontaria e pericolosa: incoraggiò un'eccessiva assunzione di debito, gettando le basi per la successiva e ancora più grave crisi finanziaria del 2008.

L'onda d'urto in europa e in italia

L'onda d'urto della crisi si propagò rapidamente in Europa. Molte startup del continente videro svanire le fonti di finanziamento, la fiducia degli investitori si inaridì e persino i settori tradizionali subirono contraccolpi. Nel 2001, la crescita del PIL dell'Eurozona rallentò bruscamente, passando dal +3,5 per cento del 2000 a un modesto +1,5 per cento, per poi chiudere l'anno in territorio negativo.

Anche l'Italia, sebbene con le sue specificità, non fu risparmiata. Numerose aziende digitali nazionali entrarono in grave difficoltà e gli investitori privati, spesso meno esperti, subirono perdite ingenti. Il rallentamento globale finì per colpire un'economia già afflitta da problemi strutturali, deprimendo ulteriormente gli investimenti in innovazione e la crescita complessiva.

Il caso tiscali  

In Italia, l'esempio più emblematico di questa euforia speculativa fu Tiscali. All'epoca una delle startup tecnologiche più promettenti d'Europa, la società si quotò in borsa a 46 € per azione. In meno di cinque mesi, il suo valore raggiunse il picco straordinario di 1.197 €, con un aumento vertiginoso del 2.500 per cento.

Al culmine della sua ascesa, Tiscali arrivò a valere più di colossi industriali come la Fiat, toccando una capitalizzazione di 18 miliardi di euro contro i 13 del gigante automobilistico. Per un breve periodo, una giovane startup digitale valeva più di un'azienda con decenni di storia produttiva alle spalle. Paradossalmente, mentre Tiscali raggiungeva queste valutazioni, futuri giganti come Amazon e Google avevano quotazioni ancora relativamente modeste. Il problema era che, dietro a numeri da capogiro, i fondamentali economici di Tiscali non erano altrettanto solidi.

L'illusione, infatti, era destinata a svanire rapidamente. Nel giro di pochi giorni, il titolo crollò dai quasi 1.200 € a soli 40 €, polverizzando il 97 per cento del suo valore. Gli investitori che avevano acquistato ai massimi si ritrovarono con un valore quasi azzerato tra le mani.

L'intelligenza artificiale è la nuova bolla?

 

Il paragone con il 2001 sorge spontaneo. La domanda è inevitabile: di fronte all'enorme entusiasmo, agli ingenti investimenti e alla fiducia quasi illimitata riposta nell'Intelligenza Artificiale, non stiamo forse rischiando di gonfiare un'altra bolla speculativa, proprio come quella delle dot-com?

I segnali di un mercato surriscaldato non mancano. L'interesse per l'IA è esploso: oltre il 16 per cento delle piccole imprese quotate negli USA menziona questa tecnologia nelle proprie comunicazioni ufficiali, un balzo impressionante rispetto a meno dell'1 per cento del 2016. È significativo che circa metà di questo incremento sia avvenuto dopo il lancio di ChatGPT, a fine 2022.

Questa febbre ha creato una profonda spaccatura nel mercato. Da una parte, le aziende tecnologiche del Nasdaq 100; dall'altra, il resto delle imprese rappresentate dallo S&P 500. Il divario è netto: negli ultimi 15 anni, i titoli tecnologici hanno registrato una crescita di oltre dieci volte (+1000 per cento), mentre il resto del mercato si è fermato a un pur rispettabile +440 per cento. L'accelerazione, innescata proprio dalla diffusione dell'IA generativa, ha creato una divergenza ancora più ampia di quella osservata al culmine della bolla delle dot-com. Oggi, il settore tech non sta solo vincendo la partita: sta correndo in una categoria a parte.

I protagonisti della corsa all'oro digitale

Questa ascesa è incarnata da alcuni protagonisti chiave. Nvidia, un tempo nota per le schede grafiche, si è trasformata in un fornitore essenziale di infrastrutture per l'IA. Questa metamorfosi, supportata da una narrazione impeccabile, ha portato a una crescita stratosferica del valore delle sue azioni, con un incremento del 178 per cento solo nella prima metà del 2024.

Accanto a lei, Broadcom, altro gigante dei semiconduttori, ha superato per la prima volta il trilione di dollari di capitalizzazione, spinta dalla domanda di infrastrutture AI. E poi c'è OpenAI: pur non essendo quotata in borsa, è la protagonista assoluta. Con una valutazione che supera i 300 miliardi di dollari e investimenti miliardari in nuove infrastrutture, rappresenta l'apice di un'ambizione monumentale, o forse di una scommessa azzardata.

Il divario tra promesse e profitti

Il punto cruciale, tuttavia, è che queste valutazioni stratosferiche non sono ancora supportate da una monetizzazione proporzionale. Si stanno investendo miliardi per costruire le "autostrade" dell'IA, ma i ricavi attesi, quelli che dovrebbero giustificare una tale corsa, tardano ad arrivare. Per ora, si accumulano costi e si lanciano promesse rivoluzionarie, ma i bilanci riflettono più speranze che profitti.

Uno studio congiunto di McKinsey e Stanford conferma questo scollamento: nonostante un tasso di adozione record dell'IA nelle imprese (78 per cento nel 2024), i ritorni economici rimangono limitati, con risparmi sui costi inferiori al 10 per cento e aumenti di fatturato sotto il 5 per cento. Ciò suggerisce che, prima di vedere ricavi concreti, sarà necessario attendere la piena integrazione di queste tecnologie nei processi aziendali. Un percorso che richiederà ancora del tempo.

Minacce all'orizzonte?

Oltre alle promesse, tuttavia, cominciano a delinearsi anche delle minacce concrete a questo paradigma. Un caso emblematico è quello di DeepSeek, la startup cinese che ha lanciato un modello di IA generativa, DeepSeek-V2, in grado di competere con GPT-4 di OpenAI. La vera sfida, però, non risiede tanto nella qualità, quanto nei costi di sviluppo.

Secondo le dichiarazioni dell'azienda, l'addestramento del modello è costato appena 6 milioni di dollari, una frazione dei 100 milioni stimati per GPT-4. Non solo: DeepSeek-V2 consumerebbe un decimo delle risorse, utilizzerebbe chip Nvidia meno sofisticati e, soprattutto, è stato rilasciato con licenza open source, permettendo a chiunque di modificarlo e usarlo liberamente.

La reazione dei mercati è stata immediata e violenta: in un solo giorno, Nvidia ha visto evaporare 600 miliardi di dollari di capitalizzazione, trascinando con sé l'intero settore tecnologico. La vicenda DeepSeek ha infatti incrinato la narrativa dominante, secondo cui lo sviluppo dell'IA sarebbe un gioco per pochi, necessariamente costoso e monopolizzato dai giganti americani. Ha dimostrato che è possibile ottenere risultati notevoli con risorse inferiori e un approccio più aperto, mettendo in discussione la sostenibilità delle valutazioni stratosferiche basate su investimenti miliardari. In altre parole, se l'innovazione può arrivare da chiunque a costi drasticamente inferiori, l'attuale hype è davvero giustificato?

Se il caso DeepSeek solleva dubbi sulla sostenibilità economica, un'altra vicenda, quella di Builder.ai, mette in discussione l'autenticità stessa di alcune presunte "intelligenze artificiali". La startup prometteva di generare applicazioni software complesse a partire da semplici descrizioni verbali, quasi per magia. La realtà, tuttavia, era ben diversa. Un'inchiesta del 2024 ha svelato che dietro questa facciata algoritmica non operava alcuna IA avanzata, bensì un team di circa 700 sviluppatori in India che costruiva manualmente i progetti, mascherando poi il lavoro umano come il risultato di un processo automatizzato.

Quindi crollerà tutto? forse non è un male

Di fronte a questi segnali, la domanda è d'obbligo: stiamo costruendo la prossima crisi finanziaria sull'onda dell'entusiasmo? Una risposta definitiva è impossibile, ma è fondamentale sottolineare che un eventuale crollo finanziario non decreterebbe il fallimento della tecnologia stessa. Piuttosto, indicherebbe che i tempi non erano maturi e che le aspettative del mercato si erano rivelate eccessive, proprio come accadde con la bolla delle dot-com.

Rispetto a quel periodo, emergono però differenze sostanziali. Come spiega il professor Andrew Odlyzko, esperto di bolle finanziarie, nel caso delle dot-com esistevano metriche (come il tasso di crescita del traffico Internet) che rendevano l'implosione prevedibile. Per l'Intelligenza Artificiale, invece, mancano dati quantitativi altrettanto convincenti per diagnosticare una bolla con certezza. Inoltre, se all'epoca molte startup erano pure promesse, oggi i protagonisti del settore sono colossi già estremamente redditizi.

Il paradosso della "bolla buona"

Anzi, si potrebbe persino ipotizzare che un'eventuale crisi possa avere effetti positivi a lungo termine. Il Wall Street Journal ha definito quella delle dot-com una "Good Bubble" (una bolla buona): sebbene abbia bruciato miliardi, ha anche finanziato indirettamente la costruzione delle infrastrutture digitali — data center, fibre ottiche, piattaforme di e-commerce — su cui si fonda oggi il nostro mondo online.

Amazon ne è l'esempio perfetto. Dopo essere stata duramente colpita dal crollo, l'azienda non solo si è ripresa, ma è cresciuta fino a dominare il mercato globale. Il crollo del 2000 ha agito come una sorta di selezione naturale, eliminando gli attori meno solidi e permettendo ai veri campioni, dotati di modelli di business robusti, di emergere in un ambiente meno affollato. L'eventuale scoppio di una "bolla dell'IA" potrebbe quindi funzionare come una necessaria correzione, separando le iniziative di valore dall'hype speculativo e portando benefici inaspettati.

Una rivoluzione tecnologica indipendente dalla finanza

Questo perché, al di là delle fluttuazioni di mercato, l'Intelligenza Artificiale sta già rivoluzionando concretamente le nostre vite. Basti pensare alle sue applicazioni in campo medico: il servizio sanitario britannico, ad esempio, sta sperimentando un sistema AI in grado di prevedere il rischio di diabete con anni di anticipo, aprendo la strada a una sanità più preventiva e sostenibile.

Pertanto, un'esplosione della bolla speculativa non significherebbe il fallimento della tecnologia, ma semplicemente una correzione delle aspettative eccessive. Esattamente come la rivoluzione delle dot-com, pur tra le macerie della crisi, ha gettato le basi per il mondo in cui viviamo oggi — con il suo e-commerce, i social media e l'accesso istantaneo all'informazione — così l'IA è qui per restare.

La vera questione, quindi, non è se l'IA trasformerà il mondo, ma come. La tecnologia è uno strumento potente e neutrale, ma il suo impatto dipende interamente dalle nostre scelte. Un conto è utilizzarla per diagnosticare malattie o ottimizzare l'uso delle risorse energetiche; un altro è impiegarla per sviluppare armi autonome o per eliminare intere categorie professionali. Ci troviamo di fronte a un bivio etico: la sfida non è tecnologica, ma umana.