Di Pietro Romano
C’è del genio nella sua (presunta) follia? Sua di Donald Trump e del suo staff, intendo. E c’è follia nel (nostro, presunto) genio? E soprattutto nella nostra supponenza europea?
A monte, prima di tutto, è stata di certo azzardata, se non scorretta, la condotta delle classi dirigenti europee nel corso dell’intera campagna elettorale USA. Impegnati come un sol uomo (e una sola donna) accanto ai candidati democratici. Prima al presidente uscente Joe Biden, anche quando la sua salute era palesemente e gravemente minata. Poi al fianco di Kamala Harris, che negli Stati Uniti molti dei principali commentatori filo-democratici avevano tacciato di essere stata la palla al piede della presidenza Biden da vicepresidente. Tanto che molti democratici, fino alla primavera 2024, avevano chiesto a Kamala Harris un passo indietro e l’abbandono del ticket.
Persino un politico molto meno umorale e ruvido (per usare un eufemismo) di Trump se la sarebbe legata al dito. E non a torto. Una ingerenza del genere in una elezione nel campo occidentale non si ricordava più da decenni. Perlomeno inedita nel post caduta del Muro di Berlino. Figuriamoci con un politico in campo della tempra (e dell’understatement, mi sia consentita l’ironia) di Trump. Come dire? Chi rompe paga e i cocci sono suoi. Il problema è che a raccogliere i cocci non sono le élite europee (politiche, istituzionali, economiche, intellettuali, artistiche) ma i cittadini comuni, i piccoli e medi imprenditori, chi desiderava avviare un’attività.
Le élite continuano a intonare la solfa del male al suo Paese che starebbe arrecando Trump ma, come dicevano i miei anziani nati nell’Ottocento nel Salernitano, “la festa è quando si torna, non quando si va”. E per ora non sembra arrivata neanche la meta, figuriamoci pensare al ritorno.
È stato ricordato – magari senza citare l’autore dell’errore – che quando nel 2009 il presidente Barack Obama impose tariffe del 35% sugli pneumatici cinesi, ne derivò – il calcolo è di Gary Clyde Hufbauer, specialista di commercio e tassazione internazionali – un aumento del prezzo degli pneumatici, perfino quelli fabbricati negli Stati Uniti; un trasferimento degli acquisti dalla Cina al Messico e ad altri Paesi asiatici; la distruzione di 4.000 posti di lavoro nella catena commerciale e dei servizi statunitensi a fronte della creazione di soli 1.000 nuovi posti di lavoro nell’industria.
A fronte di questi dati, che fotografano una realtà ristretta in tutti i sensi, esiste, si potrebbe ribattere, perlomeno un esempio contrario dalle dimensioni ben più ampie: la Corea del Sud ha costruito la sua potenza industriale anche grazie a una muraglia tariffaria.
La realtà è che nella politica economica di Trump, soprattutto nei confronti dell’Europa, non c’è solo la ripicca verso l’Ue né una specie di amore spasmodico per i diritti doganali, quale negli USA non si vedeva perlomeno da un secolo. Esistono obiettivi ben precisi e tutt’altro che velleitari o addirittura folli, come sono stati bollati.
Gli obiettivi della politica economica di Trump
Il primo obiettivo è il deprezzamento del dollaro. Con un dollaro forte come sei mesi fa, gli Stati Uniti sarebbero finiti in breve a non produrre più nulla e a non ricevere neanche un turista, mentre i cittadini americani sarebbero sciamati all’estero, creando ricchezza fuori dai confini.
Il secondo obiettivo è un incremento delle entrate doganali, destinate a diventare, anche in caso di forte riduzione dei dazi minacciati dalla Casa Bianca, una delle principali entrate pubbliche USA, in grado di finanziare il taglio delle tasse e anche interventi sul debito pubblico.
Il terzo obiettivo è la riduzione della rendita di cui, secondo Trump, godono le imprese straniere che vendono negli Stati Uniti. Non tanto tramite l’imposizione dei dazi, quanto con il trasferimento negli USA di parte della produzione, con la creazione di nuovi posti di lavoro e quindi con nuove entrate fiscali. Una redistribuzione di valore a favore dell’economia reale americana, tanto cara a Trump e al suo elettorato.
Le incognite sul debito pubblico USA
Riuscirà il presidente Trump a raggiungere i suoi obiettivi? Si vedrà. Rimane da risolvere anche il problema della tenuta del debito pubblico USA, ma questo allo stato pare più che altro una discussione scolastica. Di certo, il ritorno dalla festa è ancora lontano. Molto più di quanto danno per certo (o quasi) nelle cancellerie europee e soprattutto nel cosiddetto quartiere europeo di Bruxelles.